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Introduzione: una mappa della città contesa

Una mappa della città contesa L’avvicendamento tra coalizioni bicolori al governo nazionale, come era prevedibile, non ha prodotto sostanziali discontinuità anche sulla questione degli sgomberi. La città solidale edificata a Roma dalle esperienze di autogestione nell’arco di trent’anni - occupazioni abitative, centri sociali e tessuto associativo e di cooperazione -, continua a restare pesantemente sotto assedio, e rischia di essere espugnata. Una città nella città che è possibile osservare ora nel suo insieme grazie ad una mappa che la fa emergere in tutta la sua multiforme estensione. Proprio in questi giorni sta diventando sempre più critica la situazione di Lucha y Siesta, il “progetto ibrido tra casa rifugio, casa di semiautonomia e centro antiviolenza per le donne” nato nel 2008, che procede verso la sospensione delle utenze e l’asta giudiziaria connessa al concordato fallimentare dell’Atac, mentre il Cinema Palazzo, occupato nel 2011, ha dovuto martedì scorso resistere a un tentativo di riacquisizione da parte della proprietà dell’immobile con una chiamata pubblica e una riappropriazione collettiva dello spazio. La “città contesa” è tutta in questa fotografia, di donne e uomini che, condividendo valori, esperienze e spazi sociali in una città sempre più polarizzata e spoglia di relazioni, generano ancora beni collettivi (solidarietà, servizi, saperi, cultura accessibili a tutte e tutti) contro logiche e interessi speculativi e privatistici, o contro una mano pubblica attenta soltanto a tutelare la proprietà privata e a tenere in ordine i conti - e indifferente, se non ostile, ai bisogni e diritti sociali. Le minacce arrivano da ogni fronte. In primis, e senza soluzione di continuità, dai governi che si sono avvicendati in questi anni, a partire dal cosiddetto piano casa Renzi, o decreto Lupi (Legge 28 marzo 2014 n. 47, “Misure urgenti per l’emergenza abitativa, per il mercato delle costruzioni e per expo 2015”), e dal suo famigerato art. 5, secondo cui “chiunque occupa abusivamente un immobile senza titolo non può chiedere la residenza né l’allacciamento ai pubblici servizi…”. Una stretta repressiva che è stata naturalmente rafforzata dall’ex ministro degli Interni Matteo Salvini e dai suoi decreti sicurezza, ed ha adottato Roma, ovvero la città in cui il fenomeno delle occupazioni è più diffuso e radicato a causa della cronica latitanza di politiche abitative e della malagestione del patriomonio immobiliare pubblico esistente, come principale terreno di applicazione e sperimentazione. Qui la stretta repressiva si è convertita in un piano organico di sgomberi concepito come progetto pilota di un piano nazionale. Predisposto attraverso una serie di interlocuzioni e atti coordinati tra Viminale, prefettura ed enti locali con il supporto del Comitato Provinciale per l’Ordine e la Sicurezza pubblica, il piano ha inteso censire le occupazioni e la relativa popolazione, verificarne le condizioni igienico-sanitarie, accertare lo stato degli immobili, definire criteri e ordini di priorità degli interventi e, in linea molto teorica, prefigurare soluzioni alternative al fine di procedere con una sistematica campagna di sgomberi, e si è concretizzato nel “Programma” prefettizio con l’elenco e la descrizione di 22 interventi prioritari pubblicato il 18 luglio scorso. Si tratta di un percorso che prende avvio durante il periodo della gestione commissariale di Francesco Paolo Tronca, su impulso del Tavolo tecnico per l’emergenza abitativa voluto dall’allora prefetto Franco Gabrielli e soprattutto del “Programma per l'emergenza abitativa per Roma Capitale” della Regione Lazio, che con la delibera del 15 marzo 2016 stanziava una prima tranche di 40 milioni (su 194 complessivi) per predisporre concrete soluzioni abitative rivolte paritariamente sia agli aventi diritto delle graduatorie Erp, sia ai “nuclei familiari che vivono in immobili pubblici o privati impropriamente adibiti ad abitazione”, pubblicando un primo elenco di 79 occupazioni romane. Circa un mese dopo, il 12 aprile, il neoinsediato Commissario Tronca dava approvazione con la sua prima delibera (50/2016) al “Piano di attuazione del programma regionale per l’emergenza abitativa per Roma Capitale”, limitando al 15% del totale la quota parte dei fondi regionali da destinare agli abitanti delle occupazioni, e pubblicando un proprio elenco, molto simile a quello regionale, di 74 occupazioni da sgomberare, nonché una lista ristretta di 16 casi prioritari. Da Tronca in avanti, si registra uno scivolamento progressivo verso un approccio repressivo che fa avanzare la pianificazione e attuazione degli sgomberi, senza predisporre, nonostante la disponibilità dei fondi, soluzioni stabili per le persone. La circolare Minniti del 1 settembre del 2017 ancora reca traccia di una volontà politica di trovare soluzioni abitative per gli occupanti contestualmente agli sgomberi, anche perché arriva all’indomani dello scempio di via Curtatone vicino alla Stazione Termini, dove il 19 agosto 2017 800 persone, prevalentemente rifugiati eritrei, erano stati scaraventati in mezzo alla strada senza alcuna contromisura predisposta. Atteggiamenti prudenziali che vengono meno ovviamente con l’arrivo di Salvini al Viminale, che ha determinato una nuova stretta repressiva a partire dalla circolare del 1 settembre 2018 (sgomberi incondizionati) e con il decreto sicurezza approvato nel novembre successivo (inasprimento delle pene per chi occupa). Una stretta tradottasi nello sgombero selvaggio di via Cardinal Capranica, eseguito il 15 luglio scorso con uno spiegamento di forze senza precedenti, in seguito al quale la comunità che abitava in una ex scuola di Primavalle dal 2003, circa 300 persone (marocchini, rumeni e italiani), tra cui 80 bambini, è stata sradicata e disgregata senza aver predisposto alternative se non emergenziali. Lo schema generale che emerge da queste vicende è sconfortante. A fronte di piani prefettizi che fissano priorità fondate principalmente sulla esigenza di scongiurare il danno erariale derivato dalla mancata esecuzione dell’ordine di rilascio, che implica pesanti sanzioni a risarcimento dei privati per la pubblica amministrazione, si assiste da un lato a sgomberi violenti e risolutivi in relazione a immobili di pregio o comunque facilmente valorizzabili, che siano di proprietà privata (Curtatone) o pubblica (Cardinal Capranica), dall’altro, più sotto traccia, si producono quelli che potremmo definire “sgomberi ricorsivi”, ovvero sgomberi di immobili periferici e difficilmente valorizzabili che vengono successivamente rioccupati o implicano un semplice travaso di residenti tra un’occupazione e l’altra, in condizioni sempre più precarie. E’ questo il caso degli sgomberi reiterati del capannone di via Vannina presso la Stazione Tiburtina (marzo, aprile e giugno 2018), della ex Penicillina in via Tiburtina (dicembre 2018 e gennaio 2019) o di via Raffaele Costi a Tor Sapienza (settembre 2018 e gennaio 2019), immobili fatiscenti - nel caso di Raffaele Costi parliamo di un abuso edilizio a opera del palazzinaro romano Berardino Marronaro -, puntualmente rioccupati dopo poco tempo. Riguardano in genere situazioni che non sono coordinate dai movimenti di lotta per la casa, più simili a slum che a occupazioni organizzate. Vi sono costretti a vivere migranti e rifugiati grazie all’infernale circuito repressivo prodotto dalle politiche securitarie, che da un lato riducono le strutture di accoglienza e integrazione (come nel caso della chiusura degli Sprar a opera di Salvini), ingrossando insediamenti precari e occupazioni, dall’altro mettono in atto sgomberi ricorsivi sempre più violenti e inefficaci, vista l’assenza di alternative.

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  • Ultima modifica: 16/10/2019 11:20
  • da Stefano Simoncini